21 luglio 2009 Fernanda Pivano, la sua America è la nostra America
In questi ultimi anni Fernanda Pivano è stata al centro dell’attenzione del mondo letterario e giornalistico che ha finalmente riconosciuto il suo ruolo nel diffondere la cultura americana in Italia. Grande impresa per una donna come lei che ha sempre navigato ai margini, anzi fuori da quella che lei ha sempre chiamato accademia. Non è sempre stato così. Quando bussai alla porta della sua casa di via Manzoni in una giornata non qualsiasi del 1972, quasi non la guardava nessuno. Anni strani. Casa con il giardino interno, gli altarini della tradizione indiana. Non era ancora quella che ricorda mio figlio Davide, dei traslochi successivi. La casa dei pacchi di libri all’ingresso, dei libri in pacchi, dappertutto. La casa dei libri. Ma dove dorme, dove mangia? La Nanda di Bogliasco e di Nervi, da dove partiva Hemingway. E delle zucchine trifolate preparate con la cura dello scrittore dal mio amico Alvaro. E non solo. Fernanda Pivano canta da sempre l’America, quella sognata da tanti emigranti, quella che ci fatto sognare, quella che ci ha fatto soffrire, arrabbiare e che ci ha dato e ci dà ancora la speranza per un futuro migliore. America controversa, da dimenticare oppure da tenere davanti agli occhi. Grazie, Nanda per le tue traduzioni, le sue recensioni, le sue presentazioni, i tuoi articoli, il tuo sorriso. Cominciò con il trasferimento della famiglia a Torino. L’università e le lezioni di Cesare Pavese che l’introdusse alla letteratura americana, simbolo di libertà agognata in un periodo infelice. Tesi brillante su Moby Dick di Herman Melville e a seguire già nel 1943, in pieno periodo bellico, la traduzione del primo capolavoro, l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters che resta sempre in prima linea. Anche per l’interpretazione musical di Fabrizio De Andrè. Dopo la guerra si trasferisce a Milano che non ha più lasciato. Nel 1948 pubblica la traduzione di Addio alle Armi di Ernest Hemingway che le dà la prima notorietà e a seguire. Negli anni successivi si dedicò a Francis Scotto Fitzgerald di cui curò le traduzioni e pubblicazioni per Mondadori: Tenera è la notte, Il grande Gatsby, Di qua dal paradiso e Belli e dannati. Opere di un’epoca legata alla Lost Generation degli americani di Parigi che stava per essere soppiantata da un’altra generazione di scrittori americani con esperienze diverse.
Ma l’evento più importante di quegli anni fu il
suo viaggio in USA del 1956. Scopre l’altra America o meglio l’America
tormentata del primo dopoguerra. L’America che nel 1959 sarà immortalata
dalla sua traduzione di Sulla strada di Jack Kerouac, che dipingerà più
di ogni altro il disagio esistenziale alla ricerca di un’identità nel
nuovo mondo ridisegnato dalla seconda guerra mondiale. L’America contro,
che sarà poi cantata da Allen Ginsberg in Jukebox all’idrogeno nel 1964.
Sono gli anni che Fernanda dedica alla diffusione degli artisti della
Beat Generation, la generazione dei semi-sconfitti sognatori di un mondo
diverso, lontano dalle guerre, dai fatui valori di una società sempre
più materialista. Quell’America che non ne vuole più sapere del Viet-Nam.
Nomi che Nanda mette in copertina: Bob Dylan, Lawrence Ferlinghetti,Gregory
Corso, Richard Wright, Charles Bukoski, William Burroughs. E la nuova
schiera di autori americani come Jay McInerney, Bret Easton Ellis, David
Foster Wallace , Jonathan Safran Foer, Chuck Palahniuk. Scrittori non
sempre in prima pagina perché non facili, ma sempre fini analisti della
società americana, come piace a Nanda. Scrittori americani, oggi forse
non così migliori dei nostri. |